domenica 12 novembre 2023

L'idea geniale del "bonus ammendo"


In Francia si chiama «bonus réparation» che potremmo tradurre con «bonus rammendo». È l'ultima iniziativa messa in campo dalla ministro francese per l'Ecologia Bérangère Couillard per contrastare gli sprechi e consiste in un contributo che può variare dai 6 ai 25 euro presso alcuni laboratori di sartoria o calzoleria convenzionati per riparare quella giacca che avevamo lasciato nell’armadio da anni per rifocillare le tarme e i pesciolini d’argento (ovvero Lepisma saccharina) o un giubbotto o un paio di scarpe. E cosa c'è di più romantico (e soprattutto sostenibile) del ridare vita ai propri abiti? Oltre evitare gli sprechi si sosterrebbero anche le piccole botteghe sartoriali. È la migliore risposta alla nuova tendenza del “usa e dai via” creata da tante app che conosciamo bene.

Ma questa idea si fonda sulla saggezza dall’arte giapponese del “kintsugi”: quando i pezzi di ceramica di un certo valore si screpolano o si rompono invece di cercare di nascondere le “imperfezioni”, l’artigiano giapponese le riempie con una lacca dorata in contrasto. Il difetto non solo non viene camuffato e nascosto ma addirittura evidenziato come espressione dell’oggetto che perdura, sebbene non integro, come fosse un segno della sua bellezza imperfetta. La nostra società occidentale – purtroppo – è indirizzata esattamente verso la direzione opposta, tendiamo maniacalmente all’ostentazione dell’efficienza. E poi si aggiunge anche il consumismo compulsivo che ci impone di sbarazzarci di ciò che non è più perfetto dal piatto sbeccato, al pullover smagliato, al paio di scarpe da risuolare (…salvo poi acquistare jeans o T-shirt già strappate!). O più semplicemente qualcosa di cui ci siamo stufati dopo poco tempo: non li usi più? Mettili sull’app ci consiglia uno spot”!

Il discorso non cambia per le nostre case. Ci viviamo benissimo? Chi se ne frega: devi fare il cappotto, devi cambiare termosifoni, devi rifare gli infissi, devi mettere le pompe di calore… La chiamano efficientamento energetico. E vorrebbero anche farci credere che tutto ciò avverrà gratuitamente! Una società che avesse davvero a cuore i propri componenti, elaborerebbe invece dei premi incentivanti con forti agevolazioni economiche per coloro che dimostrino di saper mantenere un’auto a lungo tempo, che aggiustano il tetto di casa soltanto quando appaiono le prime crepe o cambiano gli infissi quando c’è un’infiltrazione, quando finché si sta al calduccio non cambiano il termosifone perché quelle persone stanno dimostrando di saper gestire i propri denari, anziché sprecare le proprie risorse approfittando degli specchietti per le allodole che gravano su tutti gli italiani. E ciò che è ancora più triste e questa tendenza si applica anche per le persone. Ecco perché le coppie scoppiano: anziché trovare un compromesso ci si lascia ancor prima della crisi del settimo anno. E non parliamo poi dei genitori che ci hanno dato la vita: quando non sono più efficienti, c’è un RSA ad accoglierle. 
Era il 1991 quando il grandissimo Renato Zero sul palcoscenico di Sanremo cantò “Spalle al muro” e gridava «Vecchio! Diranno che sei vecchio! Con tutta quella forza che c’è in te […] Vecchio sì, quando non è finita, hai ancora tanta vita e tu lo sai che c’è! Con quello che hai da dire, non vali quattro lire, dovresti già morire…». Le parole erano di Mariella Nava ma la sua interpretazione era davvero toccante. Almeno per chi – per citare ancora Zero - «frugando nella sua giacca scopre che dietro il portafogli ancora un cuore c’è». Vabbè.
E io non posso non ricordare che anche in questi casi, la nemesi è là dietro, in agguato, paziente. Perché la nemesi non ha fretta. Attende calma e mite. Ma al momento giusto arriverà. E quando arriverà è troppo tardi per porvi rimedio e trovare una soluzione


sabato 8 aprile 2023

FESTINA LENTE - OVVERO RIAPPROPRIAMOCI DELLA CALMA




Oggi nella mia cassetta delle lettere ho trovato una cartolina. Ero felice quando ho scoperto che ...non era una bolletta da pagare o qualcosa del genere. Ma doppiamente felice perchè era la cartolina di una cara amica dalla splendida Toscana.
Che emozione!
Questo mi ha fatto riflettere sul crepaccio che si è creato tra generazioni nell’ambito della comunicazione e soprattutto per ciò che riguarda la trasmissione della sensibilità.
Oggi abbiamo sempre fretta, tutto dev’essere velocissimo, immediato, in tempo reale, le nuove generazioni hanno tutto su una “app” sullo smartphone. La colonna sonora delle nostre giornate sono il “plin plon” delle notifiche dei messaggi che mandiamo e riceviamo freneticamente in un modo quasi esasperante.
Abbiamo perso il gusto di assaporare il tempo, vogliamo tutto e subito perché non abbiamo paura di perdere tempo.
Oramai le cartoline non esistono più, soppiantate da un effimero quanto vano selfie. Fino a qualche decennio fa quando si andava 
n vacanza (da soli o con la propria famiglia) le cartoline patinate dei luoghi visitati con i propri saluti, ad amici e parenti erano un rito immancabile. E poco importa se quasi sempre arrivavano dopo giorni (o anche dopo settimane) quando la vacanza era finita!. Pensiamoci bene: questo rito richiedeva per tanti versi anche una certa cura: la scelta di una cartolina quanto più adatta al destinatario, talvolta ironica o più “ufficiale”, poi l’elaborazione di un messaggio che andasse oltre il banale “saluti da…”. E tutto ciò richiedeva del tempo.
Vi ricordate poi le lettere via posta tradizionale al nostro amico o alla ragazzina conosciuta in spiaggia l’estate precedente? Occorreva sederci, trovare le parole giuste, semmai riscriverle in bella copia se c’erano troppi scarabocchi.
Poi la fremente attesa della risposta e la gioia di trovare una lettera nella cassetta, aprirla e leggere una risposta. Volete mettere l’attesa della risposta contando i giorni? Come disse Gotthold Ephraim Lessing “l’attesa del piacere è anch’essa piacere”. E le cartoline e le lettere potevi conservarle e riprenderle dopo anni in mano emozionandoti…
Ora invece è meglio condividere qualche stories su Instagram dei tuoi viaggi o mandare le foto via Whatsapp ad amici e parenti! In un paio di secondi è presto fatto e al massimo riceveremo qualche “like”. Pochi secondi per inviarlo e pochi secondi per leggerlo per poi cadere nell’oblio più squallido privandoci delle nostre emozioni!
A questo proposito mi è venuta alla mente una storiella.
Un giorno un signore chiese ad un bambino di indicargli la strada migliore per raggiungere la piazza del paese dove aveva un appuntamento. Il bimbo disse «seguimi, ti accompagno!». Camminarono per oltre 20 minuti passando in molte vie del paese ed alla fine arrivarono alla piazza centrale del paese. Il signore ringraziò il bambino e si diresse all’appuntamento consapevole di arrivare in ritardo. Per puro caso poi scoprì che era possibile arrivare alla piazza in pochi minuti in un modo più diretto. Qualche giorno dopo quel signore, rincontrò il bambino che giocava nella piazza e gli chiese come mai gli avesse fatto girare mezzo paese per arrivare in piazza. Il bambino allargando le braccia rispose serafico «beh … lei mi ha chiesto la via “migliore” non quella più breve: io l’ho fatta passare nelle zone più belle per farle conoscere il mio bellissimo paese. Si ricorda? Siamo passati su quel promontorio da dove si vedeva il paese vicino, poi siamo passati davanti alla chiesa antica e poi le ho fatto vedere la statua del santo patrono che è famosa e che percorrendo la via più breve non avrebbe visto!». La morale della storia è molto semplice: siamo ossessionati dalla frenesia quotidiana che ci fa confondere ciò che è più veloce con quello che è migliore. E la fretta è la peggior nemica della qualità.
Poi vogliamo parlare di come il lessico si stia impoverendo. Siamo talmente abituati a comunicare i nostri stati d’animo per mezzo di emoji e non siamo più in grado di descriverli a parole. Non descrivendoli, quindi, non siamo nemmeno più allenati a riconoscere le emozioni e i nostri stati d’animo e neppure a saperli affrontare.
Un vero genio della comunicazione Marshall McLuhan sosteneva che “Il medium è il messaggio” vale a dire che il messaggio ed il mezzo con cui possiamo trasmetterlo sono una cosa sola, o perlomeno, si influenzano in un modo profondissimo.
Le nuove tecnologie avrebbero dovuto aiutarci a trasmettere e divulgare le emozioni e i pensieri in modo più semplice ma paradossalmente hanno invece ostacolato questa trasmissione! La televisione prima e poi internet ha dato accesso alla possibilità di raccontare le nostre storie, nei modi e tempi più vicini al nostro essere, ma pretendiamo di farlo velocemente!
 Ma dobbiamo ritornare alla domanda di tutte le domande: perché sentiamo il bisogno di raccontarci, di leggere, di guardare o ascoltare storie narrate? Credo che i racconti ci aiutino a dare senso alla nostra esperienza, ai nostri vissuti, a rileggere le nostre emozioni. Il racconto delle nostre esperienze definisce non solo chi siamo, nel senso più riflessivo e profondo, ma ha anche un’importante funzione sociale perché ci permette di comprendere e comunicare con gli altri, facilitando anche una lettura e una narrazione condivisa del mondo circostante. I racconti ci aiutano a ricordare, a riscrivere, ad esplorare il mondo, a definire valori, rileggere avvenimenti, attribuire un significato all’esperienza.
Sia chiaro che non mi sto affatto opponendo alla velocità della tecnologia (che mi permette di scrivere questa riflessione e renderla immediatamente leggibile da voi!) ma vorrei solo invitarVi a non lasciarci fagocitare dalla frenesia o dal “logorio della vita moderna” come diceva uno spot di un noto amaro… cinquant’anni fa!
Volete un esempio? Quando viaggiamo in navigatore ci porta esattamente nel punto in cui noi abbiamo programmato. Quasi fossimo un cyborg. È vero che arriviamo prima ma volete mettere il piacere di fermarsi in un paesino sperduto e chiedere «…mi scusi buon uomo, per andare a …. Questa strada è giusta?». Ci stiamo privando delle relazioni umane…?
Da bambino – questo è un altro esempio – mi regalarono un organo elettrico e seguendo i numeretti sulla tastiera abbozzavo qualche musichetta famosa. E non posso certo dire che io – che suono solo il videocitofono – sapessi suonare.
Una politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense, Hannah Arendt ci ha lasciato detto che «la narrazione rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi».
Quando scriviamo, ascoltiamo o guardiamo una storia, in qualche modo quello che ci colpisce è sempre qualcosa che ci riguarda, che parla di noi, che ci aiuta a dare significato alle nostre emozioni e vissuti, a riguardare la nostra esperienza da distante, a dare un senso e un ordine, ma non possiamo che osservarlo dal nostro punto di vista e con il nostro sguardo.
Oggi, siamo sommersi da storie, ma la vera sfida educativa è quella di insegnare a raccontare storie che ci permettono di fare vedere quella parte del mondo che ancora non conosciamo.
Ben venga quindi una mail o un WhatsApp per metterci d’accordo per incontrarci o tenerci in contatto con un amico in Nuova Zelanda, ma non perdiamo mai la gioia di esprimere i sentimenti. Con calma. Non per nulla il mio motto per eccellenza è “FESTINA LENTE” ovvero “AFFRETTATI LENTAMENTE!”

mercoledì 14 dicembre 2022

La magia del cinema


Qualche settimana fa decisi di andare al cinema per vedere lo splendido film «La stranezza». Era la prima volta che mi recavo al cinema dopo più di tre anni ed è stato davvero emozionante ritornare in una sala cinematografica. Il cinema resta sempre un’emozione unica, una forma di comunicazione assoluta, che dai fratelli Lumiere ad oggi, ha fatto sognare migliaia e migliaia di generazioni.
Complice la pandemia è infatti dilagata l’abitudine accidiosa e indolente di “scaricare” i film e guardarli in streaming sdraiati sul divano.
Ma non c’è storia: vedere un film in sala è tutta un’altra cosa.
Scaricare un film è un po' come farsi portare una pizza a casa (da qualche rider sottopagato) e mangiarla squallidamente sul cartone! (…mentre magari si guarda un film in streaming mollemente distesi sul divano con il pigiamone). Ovviamente ci sono delle eccezioni ad esempio nel caso uno sia impossibilitato ad uscire!
Trovo tutto questo tristissimo.
Non è semplicemente "guardare" un film o "mangiare" una pizza ma “andare” a vedere un film o “mangiare” una pizza: tutto il piacere ruota attorno a quel “moto a luogo”!
Le emozioni della sala cinematografica, del grande schermo, del dolby surround, dei suoni, delle immagini, creano emozioni uniche che permettono di immergersi completamente nella storia, come se lo spettatore fosse parte di essa. Il cinema (come luogo) trasmette una magia particolare incomparabile con la comodità di stare accucciato sul divano.
I dati dimostrano che la spesa al botteghino è crollata dai 2.7 miliardi di euro del 2019 (ultimo anno di normalità pre-Covid) agli 870 milioni di euro nel 2021. Un calo del 72% degli spettatori.
Occorre una strategia per rilanciare il cinema: ad esempio un divieto di trasmettere i film nelle piattaforme online per un certo periodo a partire dalla loro uscita nelle sale!


martedì 13 dicembre 2022

La deriva dei social network

 


Era il 2008 quando decisi di iscrivermi a Facebook. 
Allora era una vera novità che permetteva di contattare amici persi di vista per mille motivi. E infatti riuscii a entrare in contatto con alcuni compagni di scuola delle elementari …dopo più di quarant’anni. 
Grazie a Facebook mi sono messo in contatto con un compagno delle scuole medie che ora vive in Florida (USA). 
Oramai Facebook è il social dei boomer
Lo conferma il report “The Global State of Digital 2022”: Facebook è scomparso dal podio dei social preferiti per i ragazzi fra i 16 e i 24 anni (scavalcato da Instagram e TikTok). 
E questo cambio di preferenze dimostra chiaramente le nuove strategie di comunicazione. Non voglio fare un’analisi sociologica ma al centro dei post su Facebook c’è il testo scritto e, solo se si vuole, si può aggiungere una foto o un video. 
Instagram invece ruota – come evoca il nome – una crasi tra “Instant camera” e “Telegram” – su un’immagine o un video e, solo se si vuole, si può aggiungere anche un breve testo. Ma al centro del post c’è la foto. 
Questo dimostra quindi in modo evidente la abulia e l’accidia comunicativa fra i giovani che evita la fatica di leggere un testo e si accontenta di “guardare” e mettere un cuoricino per il “like”. 
Se ci pensiamo bene d’altronde è ciò che succede da sempre per i libri: quelli per i bambini in età pre-scolare danno maggior spazio all’immagine o alla vignetta e poi aggiungono una brevissima didascalia. Poi quando si impara a leggere troviamo i libri con la preponderanza del testo e qualche illustrazione.
TikTok poi è un vero palcoscenico su cui esibirsi davanti ad una platea sconfinata. 
Contenuti brevi da guardare e “scrollare” (far scorrere) che hanno un effetto ipnotico sull'utenza e penalizzano i contenuti noiosi che non puntino dritti al punto. 
La statistica dice che la soglia d’attenzione per un video è di 7 secondi! Mordi e fuggi!
A questo si aggiunge che il contatto è sempre più unidirezionale (io seguo qualcuno che non necessariamente segue me!) in particolare per i personaggi noti sui social ai quali i “followers” nelle diretti chiedono – anzi implorano –  di essere salutati. 
«Mi saluti?» è diventata, infatti, la frase più gettonata dalle dirette Instagram. Che equivale ad un selfie senza però alcun contatto!
Andy Warhol cinquant’anni fa parlò di “un quarto d’ora di celebrità”, ora i giovani si accontentano di molto meno: mezzo secondo mentre il loro idolo li saluta!

lunedì 12 dicembre 2022

I numerosi "gatto e volpe" di Pinocchio.


Qualche tempo fa sentii una barzelletta molto simpatica che faceva più o meno così:

 Ci troviamo nell’aldilà. Un ragazzino incontra un vecchietto, fanno amicizia e ciascuno incomincia a raccontare la propria storia.
Il vecchietto esordisce: “Io ero un povero falegname. Ero vecchio e solo. Poi finalmente arrivò a farmi compagnia un bambino. Era molto vivace, poi anche lui se ne andò e non seppi più niente di lui!”
A questo punto il ragazzino dice:“Anche il mio babbo era falegname, era molto povero...”
Il vecchietto trasognante disse: “mio figlio era un bambino molto speciale. Non era come tutti gli altri. Lui era un bambino speciale.”
“Babbino”- gridò il ragazzo.
“Gesù!”- esclamò con le lacrime il vecchietto.

Di Pinocchio in questi 137 anni s’è detto tutto da quando Carlo Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) scrisse «Storia di un burattino» pubblicato nel 1883

Tanti hanno voluto trovare di una "chiave di lettura": filosofica, politica, pedagogica, teologica, psicologica, giuridica, etc.

Anche il card. Biffi, arcivescovo emerito di Bologna e fine letterato, analizzò il capolavoro di Collodi secondo una visione “cristiana” (e, tutto sommato non ci stiamo allontanando dalla barzelletta con cui ho esordito) facendo emergere moltissimi punti di contatto tra “Le avventure di Pinocchio” e la Bibbia. Per esempio:

  • in Pinocchio esiste una sola figura femminile: la Fata Turchina; nella Bibbia si parla di più figure femminili, ma in posto di rilievo è quello di Maria;
  • in Pinocchio si parla di 4 monete d’oro, nella Bibbia ci sono 30 denari (ed in entrambi i casi, le monete portano verso cattive vie!)
  • in Pinocchio troviamo il “Grillo Parlante” come simbolo della coscienza, di ciò che “si deve fare ” e ciò che “non si deve fare”, beh, nella Bibbia c'è Mosè e le XII tavole per indicarci le regole!;
  • …e Lucignolo? Non potremo vederlo nei panni del diavolo tentatore;
  • ... vi ricordate dove finisce Geppetto? In pancia ad un pescecane. E il profeta Giona? Dov’era finito? In una balena!;
  •  ... il Gatto e la Volpe dopo aver “scucito” le quattro monete d’oro a Pinocchio come si sbarazzano dell’ex burattino? Lo “appendono” ad un albero! E nella Bibbia come finisce chi ha “maneggiato” i 30 denari? appeso ad un albero.
  • Pinocchio viene arrestato e finisce davanti ai giudici. Anche Gesù Cristo finisce davanti a Ponzio Pilato!
  • Pinocchio appeso all’albero, capendo oramai di essere in cattive acque esclama: «Babbino, babbino, perché non sei qui!», Gesù Cristo sulla croce esclama «Eloi, Eloi, lamma sabactani!», "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?"

Anche Sigmund Freud, che ha messo il ...naso fra i sogni degli esseri umani, pretendendo di decifrarli, poteva forse fermarsi davanti a quel burattino famoso proprio per il suo naso? Certo che no! E siccome il padre della psicoanalisi che è riuscito a trovare anche nei sonni infantili più innocenti, alcuni aspetti legati alla sfera sessuale, ecco dunque che in questo caso, non si discosta dal suo amato leit-motiv intravvedendo in quel “naso che si allunga davanti alla Fata Turchina” quello che noi tutti immaginiamo, alimentando innumerevoli proverbi o storielle popolari di molte regioni della nostra Italia…

Poteva ora mancare una chiave politica?
Pinocchio è di destra o di sinistra? Pinocchio è un ribelle, pertanto è di sinistra!
Ci ha pensato Guillermo Del Toro che ha voluto rivestire il burattino col suo tipico tratto caratteristico macabro e un po’ funereo a partire dall’ambientazione: l’Italia ai tempi del fascismo con contenuti quindi fortemente politicizzati.
Il regista messicano ha messo le mani avanti affermando che non sia un adattamento ma sia "liberamente tratto" dal racconto dello scrittore toscano. Resta allora un mistero sul perché il titolo sia "Pinocchio".
Già nel 1940 Walt Disney lo rivestì come un bambino tirolese, ma per lo meno la trama restò quella originale di Carlo Lorenzini in arte Collodi! Nel 2001 poi, anche Steven Spielberg si ispirò – su suggerimento di Stanley Kubrick – a questa favola per «A. I. Artificial Intelligence» ambientandola in un mondo futuro popolato da robot. Ma ha avuto il buongusto di non citarlo nel titolo!
La fantasia del regista messicano immagina un Geppetto ubriaco e collerico che sradica un tronco cresciuto vicino alla tomba del figlioletto, Carlo, intagliandolo in modo da dargli la parvenza di un burattino che durante una notte prende vita in un modo molto dark simile al dottor Frankenstein. Poi ha pensato anche di sbarazzarsi della figura materna della Fata Turchina. Così come per il Gatto e la Volpe.
Lucignolo, il tentatore, poi è il figlio del Podestà locale che non trascinerà Pinocchio nel paese dei balocchi ma in un campo di addestramento fascista per "balilla".
Il regista infine fa passare la disobbedienza tipica di Pinocchio come una forma di ribellione ai condizionamenti ideologici imposti dal regime del tempo: quindi Pinocchio è ovviamente un antifascista!
È già tanto che non l’ha mandato in montagna come partigiano! Io penso che qualche sussulto nel loculo a Collodi ci sia stato!
 
Tanto si è scritto sulle licenze di fantasia sfrenata di alcuni registi per quanto riguarda la trasposizione di un libro in film stravolgendone spesso il senso. Io ritengo che debba esistere una sorta di "copyright ideologico": il regista può fare un adattamento di un testo purché rispetti il senso che l’autore ha voluto dare all’opera.
Chissà se Carlo Lorenzini in arte Collodi, nel suo villaggio toscano vicino a Pescia, nel lontano 1881, iniziando con il suo «C’era una volta… ,“Un re” – direte voi!» immaginava quanti si sarebbero ispirati alla sua storia di quel burattino disobbediente?
 
 

mercoledì 9 marzo 2022

9 MARZO 1959: ARRIVA NEI NEGOZI BARBIE.


Il primo giocattolo glamour della storia. Un ricercatissimo oggetto da collezione. Un modello estetico per tre generazioni di ragazzine confermando il suo successo senza tempo.


Nella prima metà del XX secolo le bambole hanno ancora sembianze da neonati e solo dopo la II guerra mondiale cominciano ad essere prodotte in plastica. 
Uno scenario che lascia scontente la maggior parte delle bambine, che, nell'epoca della prima conquista dello spazio, si aspettavano qualcosa di più moderno e sofisticato con cui giocare. Tra di loro c'è Barbara, figlia di Ruth ed Elliot Handler, quest'ultimo cofondatore della Mattel, società produttrice di giocattoli fondata nel 1945.

Nel corso di un viaggio in Europa, Ruth scopre l'esistenza di “Bild Lilli”, una bambola adulta e dall'aspetto decisamente più smaliziato rispetto alle precedenti, tratta dal personaggio di un fumetto tedesco. Da essa trova l'ispirazione per un nuovo modello da proporre al marito, suggerendo come nome il diminutivo della figlia, “Barbie”Vinte le iniziali riserve, Elliot propone il progetto agli altri soci che l'accolgono con entusiasmo.

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Il debutto sul mercato arriva nel marzo del 1959 alla fiera dei giochi di New York. La nuova bambola, il cui nome completo è Barbara Millicent Roberts, è un'indossatrice alta 29 cm, ha capelli biondi (o scuri) legati con una lunga coda, occhi azzurri e un corpo da donna, su cui indossa un costume zebrato. Costo della versione base 3 $ più altri 5 per vestirla e altrettanti per il kit guardaroba. In molti rivedono nelle sue forme e nel trucco le grandi dive dell'epoca, quali Elizabeth Taylor e Marilyn Monroe.

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Presentata in tv e sulla stampa, la Barbie diventa il primo giocattolo supportato da una capillare campagna pubblicitaria, con il risultato che nel primo anno di vita ne vengono venduti 350.000 esemplari. Il successo spinge la Mattel ad arricchirla di ulteriori dettagli introducendo negli anni altri personaggi della sua famiglia e della sua cerchia di amici.

Nel 1961 debutta Ken (diminutivo di Kenneth, nome del figlio maschio degli Handler) che rimane per lungo tempo il suo fidanzato, tre anni dopo tocca alla sorella Skipper.


La stessa Barbie si rinnova continuamente lanciando sempre nuove mode e avendo come sarti d'eccezione stilisti del calibro di Jean-Paul Gaultier e Yves Saint Laurent.

Nel contempo, cambia il suo status professionale: da principessa a ballerina, da astronauta a dottoressa, da ginnasta a fotografa (2000-07). In ciò sono chiare le ambizioni dei produttori della bambola, intenzionati a proporre con essa un modello da seguire nell'idea di donna artefice del proprio destino e come standard di eleganza e femminilità.

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Proprio come modello la Barbie entra più volte nel mirino di associazioni genitoriali e organismi per l'infanzia, che ne giudicano negativamente ora il fisico eccessivamente magro (paventando il rischio anoressia), ora lo stereotipo di donna bella e stupida, costringendo la casa produttrice rispettivamente ad aumentare le misure del corpo o nel secondo caso a ritirare dal mercato la versione parlante che manifesta difficoltà di apprendimento della matematica.

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A dispetto delle critiche, delle grane legali e delle numerose concorrenti, la Barbie non perde mai il suo appeal e il suo essere fuori dal tempo rispetto alle mode e i costumi di ogni epoca. Ciò giustifica i numeri esponenziali delle vendite: in mezzo secolo oltre un miliardo di esemplari venduti in più di 150 paesi.


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Il 2009, l'anno del 50° anniversario della sua nascita, vede uscire una versione speciale. I modelli più antichi e quelli rari sono oggi ricercati da frotte di collezionisti, disposti a pagarli a peso d'oro, al punto che qualcuno arriva a sborsare 27.000 $ per aggiudicarsi all'asta la versione originale del 1959!

sabato 8 gennaio 2022

L'Europa scopre che il nucleare è "green".


Gli ambientalisti ci ricordano spesso che per “smaltire” una gomma da masticare occorrono 5 anni, una lattina d’alluminio fino a 100 anni, per un contenitore di polistirolo addirittura non bastano 1000 anni.
E io aggiungo per ri-stabilire una verità non bastano quasi 35 anni!
L’8novembre 1987, l’88% degli Italiani disse “NO” al referendum sulle centrali nucleari, ipnotizzati dalle eco-cassandre, togliendo di fatto al nostro paese un primato tecnologico e scientifico che avevamo!
Ora la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato che in Europa accanto a fonti rinnovabili abbiamo bisogno di una fonte stabile, il nucleare.
In maniera chiara von der Leyen ha espresso una posizione a favore dell'atomo.
È del tutto evidente che bisogna cominciare a discutere di nucleare pulito.
È un tema che si dovrà porre se si vuole puntare all'obiettivo dell'autosufficienza dal punto di vista energetico.
Io se permettete lo dico da quel masochista risultato del referendum dell’87!
Tra 2/300 anni negli e-book di storia i ragazzi del XXIV secolo leggeranno che gli uomini del XXI secolo per ignoranza e paura non riuscirono a cogliere l’utilità dell’energia nucleare spaventati da alcuni incidenti di percorso dovuti non all’energia nucleare in sé ma ad eventi esterni quali terremoti e tzunami.
Infatti ancora oggi, a distanza di 36 anni, si ricorda l’episodio di Chernobyl,  come un elemento per dimostrare la pericolosità dell’energia nucleare.
A nulla è servito in questi decenni il parere di uno fra i più grandi scienziati che il mondo della Scienza ci invidia: il prof. Antonino Zichichi.
Innanzitutto dobbiamo tornare rapidamente indietro con la memoria al 1986 quando ancora i muri dell’Europa dell’Est erano ancora belli saldi e forti.
Gli ingegneri della centrale nucleare Lenin di Chernobyl volevano realizzare un esperimento mai fatto prima per dimostrare, al mondo intero, la loro eccellente scienza: ovvero staccare tutti i dispositivi di sicurezza dei reattori.
Purtroppo quel 26 Aprile 1986, la situazione sfuggì loro di mano ed in piena notte, all’1:23’58”, il reattore “4” della centrale nucleare saltò in aria facendo uscire una radioattività equivalente a dieci volte quella sprigionata ad Hiroshima e inquinando una superficie pari a cinque milioni di ettari.
Il prof. Antonino Zichichi ci spiega chiaramente che “un reattore nucleare è come un elefante. Funziona bene se lo si lascia andare alla sua velocità naturale. Il pericolo inizia quando lo si vuol far correre o andare troppo lentamente”.
Quindi di chi sarà la colpa? Dell’elefante o di chi lo ha istigato a correre?
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Sul posto mandarono dei giovani laureandi che ricevettero un tale flusso di radiazioni da rimetterci poi la vita.
Purtroppo, questo fatto ha creato nell'opinione pubblica un’idea totalmente negativa del “nucleare” e l’8 novembre 1987, l’88% degli Italiani impressionato e senza esser stati informati di dettagli esatti, disse NO al referendum sulle centrali nucleari! (senza contare dell’assurdità di porre ad una popolazione di cultura media un quesito che richiede competenza tecnica  profondissima).
Questa scelta popolare ha tolto al nostro paese un primato tecnologico:
La sicurezza delle nostre centrali nucleari aveva raggiunto livelli tra i più alti. Non eravamo secondi a nessuno.
L’incidente del reattore “4” nella centrale Lenin di Chernobyl è costato all’Italia decine di migliaia di miliardi, per via degli investimenti sul “nucleare pacifico” che invece fu subito  smantellato.
Chernobyl insegna –questa è la seconda parte della lezione del prof. Zichichi nel suo libro “Scienza ed emergenze planetarie”– che esistono altri problemi di natura culturale: «l’opinione pubblica va stimolata, aiutata, capita e educata ad accettare le grandi innovazioni tecnologiche».
Basterebbe poi ricordare che le centrali nucleari francesi distano 1 ora di strada da confine italiano... e che noi dipendiamo –energeticamente parlando– da quelle centrali…
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Il dottor James F. Lovelock, famoso biologo e fra i “guru” più ascoltati del movimento ambientalista, nonché autore dell’«Ipotesi Gaia» secondo cui la Terra è considerato come un organismo vivente.
«Solo l’energia nucleare può salvare il mondo dal surriscaldamento- afferma il dott. Lovelock – evitare il ripetersi di estati torride, impedire lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia. Un ricorso intensivo dell’energia nucleare preverrà un futuro apocalittico nel quale il Polo Nord sarà ridotto a poco più di un gigantesco iceberg e la Foresta Amazzonica sarà sommersa dalle acque»
Senza contare che con l’energia nucleare si risolvono anche le emissioni di CO2, vero imputato della salute del Pianeta Terra.
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Circa 500.000 anni fa in seguito ad un violento temporale un albero fu colpito da un fulmine e si svilupparono fiamme altissime che attirarono l'attenzione degli ominidi presenti in quel villaggio! O, forse, fu a causa di una colata di lava incandescente fuoriuscita dal cratere di un vulcano.
Fu così, forse, che l’«homo erectus» scoprì il fuoco.
Molti uomini -avvicinandosi a questa nuova e sconosciuta “cosa”- perirono e arsero vivi.
Poi -però- c’è chi si avvicinò con cautela lo osservò e fu anche capace di mantenerlo vivo e riprodurlo.
Grazie alla sua intraprendenza l’uso del fuoco è stato fondamentale per lo sviluppo della civiltà umana.
Con il fuoco ci si riparava dal freddo e ci si difendeva dagli animali, si illuminava il buio della notte, ci si riscaldava, si scoprì la cottura delle carni e dei vegetali potenziando l’assimilazione delle sostanze nutritive dei cibi da parte dell'uomo, (e intorno alla fiamma gli uomini rafforzavano i loro rapporti, ponendo le basi delle prime comunità!). In una parola rese migliore la qualità della vita.
Ma quanto tempo passò dal quel primo rogo umano alla scoperta dell'utilizzazione del fuoco? Senza l’intraprendenza (e l’ostinazione!) di qualche uomo che intuì l’utilità del fuoco, ancora adesso saremmo all'epoca della pietra. 
Ed ho capito così che i nostri avi di 500000 anni fa, nella loro totale ignoranza e incultura, erano decisamente più saggi di noi. 
Non si lasciarono spaventare dalle fiamme di un incendio. Capirono l’importanza del fuoco che, come tante altre cose, può avere un aspetto negativo.
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Avere la botte piena e la moglie ubriaca è sempre stato il sogno dell’umanità fin dall'alba dei tempi!
Pretendiamo le "4tacche sul cellulare" in ogni punto della città ma affacciandoci alla finestra non vogliamo vedere un'antenna di un ripetitore nel raggio di 10km;
In Italia produciamo 540kg. pro-capite di rifiuti solidi urbani, ma c'è sempre qualcuno che sbraita se nel proprio comune sta per sorgere un impianto di smaltimento.
Siamo vittime della cosiddetta sindrome del "N.I.M.Y." ( not in my yard)...
Vorremmo sempre avere tutti i privilegi e le comodità senza rinunciare a niente... (eppure già i Latini ci avvisavano che «ubi commoda, ibi est incommoda!»).
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Un esempio: l’Inghilterra fu il primo paese «elettrificato» al mondo, e, per “promozione” venne offerto a tutte le famiglie un'impianto di luce gratis e un anno senza bollette. 
Bene, più della metà di esse respinse l'offerta per paura della novità.
Questa notizia ci farà senz’altro sorridere, esattamente come tra 200 anni rideranno dei risultati del referendum sul nucleare, in Italia, pilotati sull’onda emotiva di Chernobyl ...
George Bernard Shaw ci lasciò detto che «Il progresso dipende dagli uomini irragionevoli» come quelli intraprendenti che si avvicinarono -500000 anni fa- a quella strana cosa pericolosa che è il fuoco.
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Bjørn Lombørg nel suo “The Skeptical environmentalist” (L’ambientalista scettico) edito in Italia per i tipi della Mondadori, dopo aver raccolto una quantità impressionante di dati, accusò scienziati ed organizzazioni ambientaliste di esagerare e creare falsi allarmi: “l'aumento di popolazione, ad esempio, non pone problemi; l'acqua potabile è abbondante; la deforestazione e l'estinzione delle specie sono sovrastimate; la lotta all'inquinamento è stata vinta; infine, invece di combattere una costosissima battaglia contro il riscaldamento globale, di cui non ci sono prove, è meglio spendere quei soldi per costruire ospedali e quant'altro.
Ovviamente questo libro in Italia non è diventato il “best seller” che meritava, non era filo ambientalista, nonostante snocciolasse pagine di dati che confortavano la tesi di Lombørg. È meglio far stagnare il clima cupo di terrorismo psicologico e farci credere di essere seduti su una bomba ad orologeria (il nostro caro pianeta Terra).
L’analisi spietata e scientifica di Lombørg aveva il potere di mettere a spalle al muro quel “fondamentalismo verde” togliendo il “giocattolino dalle mani” alle varie associazioni ambientaliste che – sotto l’egida delle buone intenzioni – mentono sapendo di mentire, paventando tragedie e apocalissi alla firma del protocollo di Kyoto.
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I dati che ci offre il professore danese, confermati dalla più che autorevole F.A.O., ci dimostrano che l’estensione delle foreste è in lieve ma costante aumento mentre il tasso di deforestazione rallenta. Niente panico poi sul versante demografico: la popolazione non aumenta in modo esponenziale; le risorse naturali non stanno per esaurirsi (abbiamo petrolio fino al 2200! Nel frattempo la scienza troverà una nuova fonte energetica).
L’affondo vincente di Lombørg riguarda lo stoccaggio dei rifiuti solidi urbani, sfatando il tabù politically correct del riciclaggio, completamente privo di senso – ecologicamente ed economicamente – parlando.
Per stoccare l’intera produzione di rifiuti degli Stati Uniti di 50 anni, basta infatti una discarica di 28km2!! Questo bastava ed avanzava per mandare in soffitta il protocollo di Kyoto che prevedeva di ristabilire le emissione di CO2 ai livelli del 1990, come infatti i dati attuali dimostrano.

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Spero che ora che anche l’Unione Europea ha dato la sveglia, l’Italia capisca che quei “demonizzatori” dell’energia nucleare, sono da ascrivere – di diritto – tra i peggiori nemici non soltanto dell’indipendenza energetica nazionale ma anche della nostra prosperità.
Energia nucleare e gas naturale potrebbero essere considerati fonti green in Europa per accelerare il percorso verso l'obiettivo zero emissioni: va in questo senso la bozza di piano elaborata dalla Commissione che se otterrà l'appoggio della maggioranza degli Stati membri, entrerà in vigore dal 2023.
 

sabato 31 ottobre 2020

Halloween? O marketing spicciolo?


C’è stato un periodo in cui, per noi italiani, il 1° Novembre era la «festa di Ognissanti».
Poi, esteròfili come siamo, abbiamo importato ad occhi chiusi tradizioni straniere perché sono più… “cool”.
Provate a chiedere in questi giorni ad un bambino, che cosa si festeggia alla fine di ottobre/inizio di novembre! La risposta sarà corale: H-A-L-L-O-W-E-E-N!!
Fu così che, nel nostro paese, da qualche lustro, ha avuto una diffusione virale la festa di Halloween,  che – complice il marketing – si è trasformato in “carnevale d’autunno”.
Travestimenti, maschere, scheletri e scherzi sono gli elementi di questa ricorrenza che affascinano grandi e bambini.
Peccato che se ne stia cogliendo solo ed esclusivamente l’aspetto più goliardico e esteriore dell’evento, ignorando i valori simbolici e culturali originali dei pesi in cui tale tradizione è nata: Stati Uniti, Gran Bretagna e Irlanda.

Vorrei infatti specificare che non sono prevenuto contro Halloween a prescindere.
1)       Abbiamo già simili feste nelle tradizione italiana e regionale;
2)      Penso che non si sia perso il vero senso della festa di Halloween.
Mi spiego.

A partire dal termine Halloween che deriva da «Hallows’ Evening», letteralmente Sera di Tutti i Santi” e infatti la zucca intagliata, il simbolo di questa festa, chiamata “Jack O' Lantern” vede protagonista della leggenda, un vecchio fattore che, avendo peccato così tanto, neanche il diavolo lo volle e allora intagliò una zucca e iniziò a vagare per il mondo in cerca di un posto dove stare.

Nei paesi anglo-sassoni non è semplicemente un ornamento da esporre fuori dalla finestra, ma un simbolo legato ad una tradizione antichissima che serviva a tener lontani gli spiriti che –sempre secondo la leggenda– si diceva vagassero per la città nella notte del 31 ottobre.
Inoltre la tradizione di «Trick or treat?» (dolcetto o scherzetto?) fatta da bambini vestiti da mostri o streghe deriva semplicemente dal fatto che gli elfi e le fate presenti nella cultura celtica usavano fare scherzi agli uomini.
 
Ma lasciamo da parte ora le usanze celtiche.
Tutto ciò non si differenzia molto da ciò che accadeva in molti nostri paesi della Sardegna dove i bambini andavano in giro per le case a chiedere «Sos mortos mortos» o «Is animeddas» rimediando spesso fichi secchi e caramelle!.
Anche in Sardegna, infatti, la notte tra il 31 ottobre e il 1° Novembre, secondo la tradizione, il “portone” che trattiene le anime del purgatorio si apre, permettendo a queste di girovagare –momentaneamente– per le case che un tempo furono di loro proprietà o di visitare luoghi ai quali si sentono profondamente legate.
I bambini sardi, vagavano vestiti di stracci, quasi a voler simboleggiare le anime dei piccoli defunti, e bussavano di porta in porta, domandando, con cantilene differenti da località a località, una piccola offerta, un piccolo dono per le “sfortunate anime del purgatorio”, che in quella notte venivano ricordate più che in ogni altro giorno.

Ecco perché Halloween è una festa che non ci appartiene, per il solo fatto che abbiamo già le nostre tradizioni. 
Non ci appartiene perché strasuda di bieco e banale marketing (nella sua accezione più squallida) e perché rischia seriamente di annientare la nostra profonda tradizione della Commemorazione dei defunti e sostituirla con il nulla.
 
Per una corretta consapevolezza culturale, sarebbe bene valorizzare o addirittura riscoprire la nostra vecchia e cara festa dei morti, partendo soprattutto dalle scuole.
Perché le nostre tradizioni sono la nostra cultura e rappresentano la nostra identità.
Esterofili come siamo, il confronto tra Halloween e “sos mortos mortos” non può reggere!
Molto meglio una festa travestiti da streghette o diavoletto!!
 
Come se non bastasse, si è voluto aggiungere un tocco esoterico che, qualche mente bacata, ha voluto dare a questa festa, scatenando – come corollario! – l’ira funesta di coloro che, con altrettanta superficialità, lottano contro “Halloween festa satanica”.
Ma il punto è un altro.
Non dobbiamo permettere che le zucche e i fantasmi possano soppiantare i nostri dolcetti, le castagne, i fichi secchi e giocattoli. È giunta l’ora di riappropriarci della nostra identità e della nostra cultura, partendo proprio dai più piccoli.

Ai genitori e soprattutto ai nonni va questo importante compito di tramandare e tenere saldamente in vita queste tradizioni, raccontando le favole e i racconti che hanno sempre inchiodato alla sedia intere generazioni di bambini,  secondo le quali nella notte tra l’1 ed il 2 di novembre i nostri cari morti tornano a farci visita, portando dolci e regali.
È una questione di identità e di cultura: dobbiamo difenderla.

martedì 6 ottobre 2020

Shhhh!



Il silenzio è attesa di una comunicazione?

E parafrasando una citazione famosa di Gotthold Ephraim Lessing potremmo dire «l’attesa della comunicazione è anch’essa comunicazione»?

In un mondo in cui il frastuono è il compagno di ogni attimo della nostra giornata, il silenzio è davvero assenza di comunicazione?
Nelle nostre vite, regno della comunicazione più sfrenata, il silenzio è diventato più raro della tigre albina o della foca monaca.

Eppure il conte Giacomo Leopardi scrisse che «il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore».

Il linguaggio non è soltanto rappresentato da quello che viene esplicitato verbalmente, ma la vera comunicazione nasce proprio dal “non detto”, da ciò che viene omesso in una comunicazione verbale.

Il silenzio non significa mancanza di parole, significa sforzarsi ad andare oltre, penetrare la persona e comprendere quello che ci sta dicendo.

Solo un linguaggio che prevede al suo interno un posto specifico per il silenzio è in grado di stabilire un contatto emotivo positivo con la realtà.

Comunicare nel silenzio è la più grande forma di dialogo che si possa raggiungere.

Il silenzio chiarisce più di ogni altra parola; ci aiuta a riflettere, a pensare, a conoscersi, a valutare, a goderci di più tutto quello che ci circonda. È un mezzo per arrivare alla nostra anima. È un mezzo per arrivare all’anima del nostro interlocutore.

Provate a chiedere ad un musicista l’importanza di una pausa in una sinfonia.

«Il silenzio è come il colore nella tavolozza del pittore, che viene usato per un riflesso di luce o per marcare un’ombra». (M. Brunello) 
Nella musica, il silenzio all’interno di una composizione è usato per creare un’emozione. 
Oppure, chiedete ad un abile oratore o un attore quanto sia utile una pausa (ad effetto!) per sottolineare una frase o un concetto!

E passiamo al ramo cromatico: il bianco è il silenzio del colore? Tutt’altro. Li riassume tutti.

Ergo, il silenzio è assenza di parole o una sorta di concentrato di parole?

Non vorrei fare della psicologia spicciola, ma anche nella nostra frenetica vita quotidiana, il silenzio spesso dice ciò che mille parole non potrebbero dire.

Nella comunicazione umana, c’è il silenzio che predispone all’ascolto ed alla conoscenza, quello che scandisce la punteggiatura di una relazione e quello che crea lo spazio in cui è possibile ascoltare in sé quanto una comunicazione ha lasciato. 
Il verso di una splendida canzone firmata da Paul Simon e Simon Garfunkel dice «[...] the vision that was planted in my brain still remains, within the sounds of silence» (la visione che era fissa nella mia mente, resta ancora racchiusa nel suono del silenzio!).

Il silenzio è anche un essenziale stratagemma per imparare ad ascoltare: senza il silenzio non possiamo ascoltare e saper ascoltare è tanto difficile quanto saper parlare.

Per migliorare la qualità delle nostre relazioni, per comprendere fino in fondo l’altro, ma soprattutto per comprendere principalmente noi stessi, dovremmo tacere di più e imparare a riflettere, a vedere quello che gli occhi non possono vedere e ad ascoltare quello che le nostre orecchie non possono ascoltare.

Di certo non conoscono il consiglio che il filosofo Pitagora dava ai suoi discepoli: stare in silenzio per 5 anni.

Nella meditazione orientale, il silenzio è d’obbligo.

Ed anche in quella cristiana, l’acme della preghiera avviene nel deserto, cioè in silenzio.

Nella tv, invece, vera e propria “maestra” della nostra vita, vige l’assoluto divieto del silenzio.

Un “buco audio” di pochi secondi o di immagine (quella che chiamano “nero”) sarebbe capace di creare uno scompenso cardiaco nel direttore di produzione della trasmissione.

Il silenzio invade anche l’ambito della comunicazione creativa.

Un mondo dove nello spazio di uno spot si vorrebbe infilare di tutto, si riempiono quei 30” di parole come una lavatrice zeppa di panni (e le massaie ci possono insegnare che quando è troppo carica, non lava bene!).

Ecco che si arriva al paradosso di velocizzare le parole come il tipico epilogo degli spot di farmaci da banco «è-un-presidio-medico-chirurgico-può-avere-effetti-indesiderati-anche-gravi-leggere-attentamente-il-foglietto-illustrativo—non-somministrare-al-di-sotto-dei-dodici anni-se-il-sintomo-persiste-consultare- il-medico» che nessuno ascolta.

Eppure qualche decennio fa proprio uno spot geniale che diede spazio al silenzio.
Si vedevano dei commensali seduti amabilmente attorno a una tavola imbandita, ma non si sentiva alcun suono, men che meno un dialogo neppure sussurrato, tanto da pensare che ci fosse un difetto audio.

Poi solo alla fine lo slogan (ideato da un genio della comunicazione come Lorenzo Marini), che come tutti i grandi claim sono entrati a far parte dei modi di dire: «Silenzio, parla Agnesi».

lunedì 31 agosto 2020

Quando DIANA tornò a Londra da regina


Esattamente 23 anni fa, nella notte tra il 30 e il 31 agosto del 1997, lasciava tragicamente questa terra a 36 anni, Lady Diana Frances Spencer, nota in tutto il mondo come “Lady Diana”.
Da sottolineare che titolo “lady” lo ereditò dalla sua famiglia di origine, non dal matrimonio reale…
È stata innegabilmente una donna che ha lasciato un segno indelebile nella seconda metà del ‘900.
Dietro l’immagine patinata che i media hanno voluto offrirci, c’è solo l’immagine di una donna fragile, delicata, infelice, anticonformista (per quel che poteva permettersi). Una grande donna.
Una donna che conquistò il freddo popolo del Regno Unito, che sentì subito “a pelle” che per la prima volta nella “Royal Family” qualcuno mostrava sensibilità ed umanità.
«La principessa del popolo», la chiamarono e la chiamano ancora gli inglesi adottando la fortunata definizione di Tony Blair.
La notte tra il 30 ed il 31 agosto, era con Dodi Al-Fayed, quella tragica notte i due partirono in auto dall’Hotel Ritz in Place Vendôme e per sfuggire ai giornalisti e ai fotografi che li aspettavano in cerca di scoop.
Poco dopo mezzanotte nel tunnel dell’Alma a Parigi l’autista perse il controllo della Mercedes che sbandò e si schiantò contro un pilastro.  

Dodi Al-Fayed
e l’autista morirono sul colpo. 
La guardia d
el corpo, seduta sul sedile anteriore, rimase gravemente ferita. 
Lady Diana, ancora viva, venne soccorsa e poi trasportata in ambulanza all’ospedale Pitié-Salpêtrière, dove arrivò poco dopo le 2 di notte.
Aveva gravi lesioni interne e due ore più tardi venne dichiarata morta.
Per le sue esequie nelle strade di Londra si riversarono circa 3 milioni di persone. E durante la cerimonia Elton John, suo amico personale, le dedicò una versione di «Candle in the Wind».
Come disse il fratello di Diana era «una donna dalla nobiltà innata che andava oltre le classi sociali», e che negli ultimi anni aveva «dimostrato di non aver bisogno di un titolo reale per continuare a generare il suo particolare tipo di magia».
Una donna davvero speciale che con la sua immagine, dopo il divorzio, aiutò i bambini poveri dell'Africa e fu accanto a personalità come Nelson Mandela, il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, e santa Madre Teresa di Calcutta con la quale strinse una fortissima amicizia.
Proprio quest’ultima, a chi storceva il naso per la sua amicizia con quella donna così distante da lei, contesa dalle copertine delle riviste di gossip, la religiosa replicava: «Non sto incontrando una principessa, ma una giovane ansiosa di fare opere di bene e rinforzare la propria fede».
Per uno strano scherzo del destino poi entrambe moriranno a 5 giorni di distanza.
La sua grandezza era proprio quella di mettere tutti a proprio agio.

Ho un ricordo personale: 
In occasione del suo genetliaco, il 1° Luglio, mi piaceva farLe pervenire i miei auguri e Lei, puntualmente, mi faceva rispondere con la sua carta intestata (non quella ufficiale, ma quella personale!)... 

















Ecco perché la sua bellezza e la sua classe rimarranno sempre a imperitura memoria. 
Ecco perché quel 31 agosto 1997 Diana tornò a Londra da Regina.